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venerdì 22 marzo 2013



Sunkmanitu tanka - il mondo 

degli Indiani d'America






La Spiritualità degli Indiani d'America

BIANCO, ROSSO, NERO E GIALLO (PARTE 3)


Il moderno concetto di democrazia, basato su principi egualitari e su un governo federale, in cui i poteri si sovrappongono, scaturì da una miscela unica di ideali politici e di istituzioni europee e indiane, che prese il via e si propagò lungo la costa atlantica tra il 1607 e il 1776. La democrazia moderna, così com'è praticata oggi, può essere considerata un lascito degli Indiani d'America, in particolare degli Irochesi e degli Algonchini, a cui deve tanto quanto ai coloni inglesi, o alla teoria politica francese, o ancora agli sforzi, peraltro vani, dei Greci e dei Romani. La Rivoluzione Americana non si arrestò alle tredici colonie atlantiche e ben presto si diffuse in tutto il mondo. Come scrive Thomas Paine nel suo "The Rights of Man": "Da una piccola scintilla, scoccata in America, è scaturita una fiamma, che non potrà più essere estinta". Paine prosegue dicendo che quella fiamma "...s'insinua e inocula il suo progresso da uno stato all'altro, conquistando in silenzio".
Quando nel diciannovesimo secolo gli Stati Uniti si trovarono prossimi alla Guerra Civile, l'orgoglio per l'eredità indiana venne eclissato. I politici sudisti avevano ben compreso che le pratiche libertarie degli Indiani erano incompatibili con la concezione bizzarra di una democrazia della schiavitù, di derivazione greca. Gli schiavisti rigettarono il concetto indiano di libertà ed enfatizzarono la connessione mitologica dell'America con Atene e le antiche città-stato della Grecia, dove un'elite praticava la democrazia mentre la maggior parte della popolazione lavorava in regime di schiavitù.
Questa nuova generazione di politicanti fece ricoprire con colonne greche l'architettura originale del Campidoglio e il motivo con le foglie di tabacco venne sostituito dalle foglie d'acanto, in pieno stile greco. Per accentuare ancor di più il legame con il mondo classico, gli schiavisti diedero ai loro cavalli, ai loro cani da caccia e persino ai loro schiavi nomi greci e romani come Cicerone, Pericle, Omero o Catone. Gli schiavisti fecero dello stile greco il loro feticcio e imitarono l'architettura nella costruzione dei palazzi di giustizia, delle chiese e persino nelle costruzioni e nei belvedere delle loro piantagioni.
In uno dei volumi della serie "Peter Parley", quest'ultimo invita il lettore ad affacciarsi con lui da un palazzo a sei piani di New York, che all'epoca doveva essere uno dei più alti della città. Chiede al lettore di sfruttare quella posizione elevata per guardare a Ovest, immaginando di spaziare con lo sguardo sino al Mississipi. Afferma che in tal modo il lettore potrebbe trovarsi a contemplare il più grande mercato di schiavi al mondo. Ma, lo ammonisce, quando quei sani e forti selvaggi rossi saranno infine catturati, non si sottometteranno alla servile bontà del lavoro cristiano. Non si sottometterebbero alla schiavitù neppure se venissero bastonati e messi in catene. Aspetterebbero, sostiene Parley, fino a organizzare la loro liberazione da quei ceppi. Una volta liberi ne approfitterebbero per affondare una lama nella schiena dei padroni e poi sgattaiolare nelle foreste, dove raggiungerebbero i loro fratelli pagani.
Per quanto le affermazioni razziste di Parley fossero un poco esagerate, in una cosa aveva perfettamente ragione: gli indiani non hanno mai accettato di sottomettersi alla schiavitù, in qualsiasi forma.

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