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domenica 15 marzo 2015

la Carta di Utrecht del 1106



Nel 1106 o 1107, «l'arcivescovo [di Amburgo], signore territoriale, vuol popolare la regione; egli accoglie dei coloni, di cui ha forse sollecitato la venuta, che metteranno a coltura queste terre paludose, ma praticheranno soprattutto l'allevamento. Gli uomini, che vengono dai Paesi Bassi, sono esperti nel drenaggio delle acque; condotti dai loro preti (ai quali si deve senza dubbio il reclutamento dei pionieri), daranno vita a delle comunità parrocchiali, ma i lotti uniformi ch'essi ricevono individualmente, di vaste dimensioni, impongono una certa dispersione dell'abitato. Quanto al regime signorile istituito con questo contratto, esso s'ispira alle pratiche in uso sui polders nel paese d'origine dei coloni. Molto liberale, impone a ogni famiglia unicamente una tassa in moneta, molto leggera, nient'altro che un segno di sottomissione politica. Il signore del banno abbandona ai contadini l'esercizio della giustizia; egli non interverrà, su loro domanda, che per le cause maggiori; inoltre non si approprierà che del terzo delle ammende. Molto indipendenti, queste comunità si autoamministreranno. Il solo profitto del signore consiste in un prelievo sul prodotto futuro, ma limitato ad un decimo.

Nel 1154, un'iniziativa di popolamento del vescovo di Meissen. Anche in questo caso i coloni vengono dai Paesi Bassi, ma questa volta la carta nomina uno Schultheiss, al quale si deve senza dubbio l'organizzazione della colonizzazione. Assicuratosi lo sfruttamento di una porzione di terra doppia di quella delle famiglie contadine, egli detiene anche la bassa giustizia e ne riceve il terzo dei profitti. In piccolo egli diventa il «padrone del villaggio»
Il diritto dei coloni
Per portare a buon fine il loro disegno di bonifica e messa a frutto degli alti boschi, ai signori italiani del Vallese occorreva una popolazione la cui caratteristica peculiare sembrava essere una forma di adattamento quasi biologico ad un ambiente in cui era davvero arduo vivere. Nel Goms coloro che negli anni avvenire saranno conosciuti col nome di Walser avevano affinato le loro tecniche per la costruzione di infrastrutture civili ed economiche: curare i boschi, dissodare, coltivare, gettare acquedotti per l’irrigazione dei campi e per l’utilizzo domestico, costruire stalle ed abitazioni, mulini, forni, fucine… Si presentavano come i candidati perfetti per tale impresa. Occorreva tuttavia offrire a questi ultimi un valido incentivo ed i signori ricorsero al “diritto dei coloni” il cui testo fondamentale è la Carta di Utrecht del 1106. In essa l’Arcivescovo Friedrich di Amburgo-Brema fissava un accordo con alcuni contadini olandesi esperti nello strappare terre al mare; questi ultimi accettavano di risiedere sulle sponde paludose del Weser per bonificarle e renderle coltivabili ricevendo in compenso il diritto di tenere tali terre in affitto perpetuo e trasmissibile agli eredi, l’amministrazione e la giurisdizione minore e numerose libertà personali. In altre occasioni, altri contadini in tutta l’Europa poterono usufruire di tale “diritto”, ma nessuno di essi fu capace di sfruttarne le potenzialità come seppero fare i coloni alemanni: essi furono abili a plasmarlo fino a renderlo un modello all’avanguardia, in una realtà di asservimento della gleba.

In primo luogo era indispensabile garantire ai coloni l’emancipazione da molti obblighi che gravavano sui servi della gleba; in pratica non avevano limitazioni di matrimonio, non dovevano pagare tributi d’onore e tasse sul corpo ed avevano libertà di movimento per la terra da colonizzare. Essi erano in pratica liberi e svincolati da qualsiasi “proprietà feudale”, concessione fondamentale per uomini che di professione volevano fare i colonizzatori. Dopo aver concesso una quasi piena libertà di movimento, occorreva garantire loro un minimo di sicurezze, in un’impresa che aveva poche certezze di riuscita. Il colono trovava un terreno che giudicava coltivabile, lo dissodava e lo seminava; verificava se da esso potesse trarre il minimo per la sopravvivenza per sè e la sua famiglia e, solo allora, veniva stipulato un contratto di libero affitto ereditario con il Signore. In esso di fondamentale importanza erano le clausole che riguardavano la possibilità di vendere o ipotecare il diritto d’uso e di andarsene in assoluta libertà. Ma la chiave di volta di questo contratto era il canone d’affitto, immutabile nel tempo. Qualora il colono fosse stato in grado di moltiplicare il valore del terreno apportandovi migliorie o dissodando un altro appezzamento adiacente, il plusvalore non veniva tassato. Quando, infine, al tributo in natura si sostituì quello in denaro, la svalutazione del canone ridusse le entrate del proprietario terriero a piccole somme, tanto che la vendita del terreno agli stessi coloni si rivelava molto più redditizia di un “meschin balzello”: non dimentichiamo che i signorotti di allora erano sempre in cerca di liquidità per promuovere piccole operazioni belliche o semplicemente per mantenere il loro alto e dispendioso tenore di vita.

Un terzo capitolo fondamentale riguardava la gestione amministrativa e giuridica dell’insediamento: ai coloni era lasciata la prerogativa di regolare tutto quello che concerneva l’amministrazione della colonia. Gli alemanni erano già avvezzi all’autogestione e seppero organizzare il menage coloniale in modo brillante e democratico. Tra tutti i residenti della colonia veniva liberamente scelto un Ammano che avrebbe ricoperto la carica di giudice e presidente del tribunale: sotto la sua competenza era la bassa giurisdizione penale “secondo le loro consuetudini”. La sua autorità si estendeva anche al campo amministrativo, poiché, sempre su base democratica, egli era garante e curatore della divisione degli oneri di gestione della comunità. All’Ammano era dato il compito di dirimere le piccole liti di natura civile, i diritti di godimento sull’allmende (demanio), le quote d’alpeggio, i rapporti con le vicinanze, l’acquisto dei diritti di appartenenza alla comunità, gli sconfinamenti durante il pascolo, il taglio del bosco, l’aratura, la formazione dei libri dei censi, la suddivisione delle spese per le opere pubbliche, la sistemazione delle strade o lo sgombero della neve, gli affari di culto e così via. L’intera colonia si comportava di fatto come un comune, potendo curare, in modo indipendente e democratico, l’amministrazione, la giustizia ed i rapporti economici con altre colonie.
Un quarto fattore, forse poco valutato, ma di uguale e sostanziale importanza, verteva sull’obbligo di protezione del Signore e di leva militare. Nella maggior parte degli atti di concessione sono previste prestazioni militari limitate geograficamente e a casi di particolare
pericolo. Nel caso più frequente di insediamenti promossi dai monasteri o dai capitoli canonici è del tutto assente qualsiasi obbligo feudale di soccorso militare.
Tutto ciò si traduceva nel dovere del colono di difendere unicamente l’insediamento, nel proprio interesse e
 di quello del feudatario e di conseguenza, non ci sarebbero state braccia strappate alla terra, se non per la tutela della stessa.
Nessuno spreco era concesso per una così difficile opera azione.

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