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martedì 28 aprile 2015

Outing.....


...e poi ci sono giorni o notti in cui ti rendi conto di aver perso, sprecato del preziosissimo tempo, perle ai porci, fiato sprecato, tempo perso, ditela come volete ma l'amarezza di fondo è l'unico dato di fatto che permane e un pochino brucia, si perchè il tempo nessuno te lo rende, non c'è nessun dio o nessuna scienza in grado di resettare il cronometro della tua vita per dire : "ok eri in buona fede ma hai sprecato fiato, tempo ed energie, ora torniamo indietro e riprenditi il tuo tempo per cose e persone più importanti" no, non esiste niente del genere e quando apri per la merdesima volta le stesse pagine web e rivedi le stesse cose, lo stesso vuoto, cambiano solo le sfumature... ti passa la voglia e ti chiedi perchè le cose belle diventino merda, perchè un bel fiore alla fine diventa concime.... e paragonare certe esperienze umane ad un bel fiore è un gran complimento, credetemi...
Sarà che un amico oggi ha pubblicato una frasaccia riciclata (lo fanno tutti.... è troppo difficile uscire con qualcosa di originale e personale) dove diceva che gli oggetti sono fatti per essere usati e le persone son fatte per essere amate, il problema si crea perchè la gente ama gli oggetti e usa le persone.... ecco, ho visto il vero dono della sintesi applicato al mio preziosissimo tempo, alla merda - umana e virtuale - nella quale si inciampa e qualche volta non siamo neanche tanto sveglia da pulirci subito le scarpe.

Che tristezza....
E con la solita diplomazia che mi distungue auguro la buonanotte a tutti, ma proprio tutti, tanto chi ha la coscienza sporca si sa, dorme meglio degli altri, lo studio dei criminologi insegna....

mercoledì 22 aprile 2015

domenica 19 aprile 2015

venerdì 17 aprile 2015

Succede oggi... forse... a me non sembra


Today stocazzo, scusate il francesismo, complimenti per la puntualità.

domenica 12 aprile 2015

il dente di leone


Taraxacum Officinale


Il Dente di Leone sarebbe chiamato in realtà Tarassaco ma è anche comunemente detto Soffione. Le specie di questa pianta sono centinaia e crescono nelle regioni temperate dell’Europa, del Nord America e dell’Asia. La popolazione puo’ considerare il Dente di Leone come un divertimento per i bambini oppure come un’erba selvatica anche fastidiosa, in verità la pianta ha delle proprietà terapeutiche molto importanti che la rendono preziosa per l’ambiente erboristico, oltre che in cucina.

Le radici della pianta, erbacea a perenne, contengono una sostanza bianca lattiginosa dal gusto amarognolo, i suoi fiori sono molto sensibili alla luce solare, aprendosi al mattino e richiudendosi poi in serata. Le radici si presentano a fittone, lunghe fino a 15 centimetri. Nello specifico, il fusto che puo’ svilupparsi fino a 30 centimetri di altezza, termina con un’infiorescenza bianca o gialla, dal colore deciso, detta capolino, la quale a sua volta contiene il ricettacolo con centinaia di fiorellini.

Ogni fiore è ermafrodita, esso si presenta solitario ed eretto. Da ogni fiore si sviluppa un frutto secco detto achenio, il quale è provvisto del cosi’detto pappo, ovvero un ciuffo di peli che gli permette una maggiore dispersione nell’ aria tramite il vento, come fosse un paracadute.Le foglie si presentano oblunghe e lanceolate, formano una rosetta alla base del fusto e sembrando dentate hanno dato il nome di dente di leone al Tarassaco.
Il tarassaco cresce in maniera spontanea ovunque, dalla pianura fino ai 2000 metri di altezza. E’ un’erba perenne a carattere infestante che predilige quindi il suolo sciolto, gli spazi liberi e aperti. Nelle zone temperate è riscontrabile la sua diffusione ovunque.
La fioritura della pianta avviene in primavera e puo’ prolungarsi fino alla stagione autunnale compresa. I semi possono essere trasportati dagli insetti oppure dal vento. Le erbe e le radici del Dente di Leone possono essere utilizzati sia secchi che essiccati. Si ottengono the, tisane, infusi, anche liquore. Le foglie sono ricche di minerali e vitamine, si raccolgono in primavera quando risultano piu’ tenere e possono essere mangiate crude nell’insalata, per questo il tarassaco oltre ad essere chiamato dente di leone o soffione è anche detto “cicoria matta”.

sabato 11 aprile 2015

Felek Xayîn e

I curdi esprimono sempre la loro rabbia per la morte dolorosa di una persona importante e amata dicendo Felek Xayîn e , cioè, l'universo ci ha tradito
Cade combattendo il bardo guerriero

Viyan Peyman
Cantava e combatteva Viyan Peyman,giovane ventiseienne,amatissima cantante curda,originaria della città di Mako del Kurdistan iraniano,uccisa lunedi 6 aprile 2015,mentre lottava contro lo Stato islamico a Serekaniye (Siria)

Il suo vero nome è Tali Cinganlo Gulistan, Gulistan significa giardino.Aveva scelto il nome Viyan Peyman, come un nome di guerriglia. Peyman Viyan in castigliano significa volontà e l'impegno.
Viyan, un poeta combattente che praticava la tradizione canzone popolare curda / poesia di Dengbej, era conosciuto tra le fila della YPJ e non solo per il suo lavoro. La sua composizione "Kobanê," è stato fatto in un video musicale pochi mesi prima della sua morte. il pezzo per comunicare l'entità della desolazione e perdita in città. "Viyan diceva sempre, 'La mia gente è sotto la tirannia è bloccata tra quattro mura. Come posso abbandonare la lotta e andare a lavorare nelle arti e nella cultura? '"arte di Viyan e la lotta hanno avuto lo stesso obiettivo. Nel raccontare la storia della resistenza e nel sollevare il morale dei suoi compagni.

I dengbej sono dei cantastorie o poeti-cantori curdi, depositari delle tradizioni e della lingua curde, il cui repertorio è costituito da canti, tramandati oralmente, di avvenimenti storici o epico-leggendari
La figura dei dengbej è paragonabile in parte a quella degli aedi dell'antica Grecia o a quella dei bardi celti. Il canto dei dengbej è accompagnato talora da strumenti a fiato come blur e duduk.
Fin dal medioevo quelle del Kurdistan furono valli di musiche e parole.viaggiavano grazie ai dengbej.

Secondo il celebre scrittore armeno Hovhannès Toumanian (1869-1923) «ogni curdo è un poeta». Al termine del XIX secolo, quando questo fine conoscitore di usi e costumi dei suoi vicini curdi formulava tale osservazione, la società curda era ancora ampiamente rurale e tribale. Allevatori nomadi e contadini vivevano in simbiosi con la natura, continuavano a cantare, come facevano i loro antenati fin dalla notte dei tempi, le loro gioie e le loro pene, a immortalare con il canto i momenti significativi della loro vita personale e collettiva. Le frequenti gare poetiche, le feste di matrimonio, che talvolta duravano una settimana, offrivano l’occasione a questi poeti compositori anonimi, generalmente analfabeti, di far conoscere le proprie creazioni e di improvvisarne per rispondere ai loro concorrenti. I canti più apprezzati circolavano da una vallata all’altra attraverso tutto il territorio curdo grazie agli straordinari trasmettitori di memoria collettiva che per secoli furono i dengbêj, cantori professionisti più vicini agli aedi greci che ai trovatori o ai trovieri del Medioevo francese.





Tra sacro e profano



Rullano i tamburi. È un ritmo forte, serrato e crescente che influenza il battito cardiaco degli spettatori. Sale la tensione e centoventi cavalieri, in abiti tradizionali e col volto mascherato, si lanciano in una corsa sfrenata per infilzare stelle d’argento con una lancia puntata verso il cielo.
Il numero di stelle prese influenzerà l’abbondanza del raccolto e, in base all’esito, i cavalieri si esporranno a osannazione o ingiuria.
La Sartiglia 2015: Gremio di San Giuseppe

A uno sguardo poco attento la Sartiglia di Oristano potrebbe sembrare una semplice giostra carnevalesca medievale; una colorata e chiassosa vetrina di folklore locale. Invece la Sartiglia non è Carnevale, non è solo festa, sfilata, evento. La Sartiglia è molto altro.
È la celebrazione del sacro incontro tra l’umano e il divino, equilibrio magico tra la forza dirompente dell’energia terrena e la grazia eterea di una spiritualità che è elevazione e mistero profondo.

Un'unione alchemica. In questa unione tra gli opposti in cui, in senso pagano, si celebra la fertilità della terra non è un caso che il ruolo di Componidori alla guida dei cavalieri sia stato affidato anche alle donne.
Sono solo quattro i casi documentati dalle origini ad oggi, ma anche se c’è stato sempre un po’ di clamore alla loro nomina, la scelta non dovrebbe stupire: il sacro rito della vestizione trasforma Su Componidoriin un semidio che è uomo e donna insieme, come mostrano la sua maschera androgina, il velo da sposa e il cilindro nero. Gli opposti si uniscono in uno.

La prima donna. Annadina Cozzoli, farmacista oristanese dal piglio energico e deciso, nel 1973 ha ricevuto la sacra investitura. Un ruolo misterico che sino alla fine della corsa impedisce di toccare il suolo scendendo dal cavallo, come se la natura divina imponesse di fluttuare tra cielo e terra.
«Non dimenticherò mai quel giorno – racconta – ma il ricordo più bello è che qualcuno, dopo la corsa, citò una profezia di Nostradamus: quando una donna violerà la solenne corsa, la città alla bocca degli stagni diventerà grande. L’anno dopo Oristano divenne provincia». 

Bisogna aspettare il 2010 per veder puntare sul petto di un’altra donna la camelia rossa, uno dei simboli del capocorsa. Elisabetta Sechi, 33 anni, una laurea in Conservazione dei Beni Culturali e pochi esami ancora per quella in veterinaria. Racconta che la sua appartenenza al genere femminile, in un contesto che ha sempre avuto protagonisti maschili, non ha creato nessuno sconvolgimento.
«Mi sono sentita fortemente appoggiata e accolta in modo naturale da ogni cavaliere.

Elisabetta Cumponidori inizia il sogno

Come si sceglie Su Componidori?  Ogni presidente dei Gremi ha i suoi strumenti per scegliere la persona che preferisce. Contano l’abilità, la capacità e le qualità umane, ma alla fine resta una scelta soggettiva».
Scelta che negli ultimi due anni ha portato alla sacra vestizione di altre due donne, Valentina Uda nel 2013 ed Emanuela Colombino l’anno scorso.

domenica 5 aprile 2015

Buon Rapa Nui e la Sophora perduta





L'Isola di Pasqua con le sue sole 48 specie vegetali native è una tra le isole più povere di specie vegetali in tutta l'area del Sud Pacifico. L'isola infatti è situata in una zona lontana dalla costa e in tutta la sua storia geologica non ha mai goduto di un collegamento con la terraferma, mentre la maggior parte delle correnti oceaniche che interessano l'isola provengono da occidente e non portano pertanto semi dalla terraferma. Anche il contributo da parte delle specie di uccelli migratori che popolano l'isola è stato modesto.

Si ritiene perciò che la maggior parte delle piante attualmente presenti sull'Isola di Pasqua sia stata importata dall'uomo. Tale teoria trova inoltre conferma sia nella leggenda locale di Hotu Mutu'a (Grande Genitore), secondo la quale furono gli uomini a portare le piante, sia nei diari dei primi europei che visitarono tale isola, secondo i quali la popolazione locale disponeva al momento del loro arrivo già di proprie coltivazioni, che venivano usate per il sostentamento umano e come fonte di mangime animale.
Le ricerche dei botanici sui pollini presenti nei sedimenti delle paludi (palinologia) e sui frammenti di legno bruciati ritrovati nei forni e nei cumuli di rifiuti più antichi hanno dimostrato che la vegetazione attuale è il risultato di una serie di radicali modifiche apportate direttamente ed indirettamente dall'uomo nel corso dei secoli. Secondo queste analisi, l'isola era coperta fino a qualche secolo fa da una fitta vegetazione composta da diverse specie di piante ad alto fusto, tra cui una palma gigante (simile alla specie Jubaea chilensis), probabilmente la più grande al mondo, raggiungendo un diametro del tronco di due metri, ed altre affini a specie presenti nella polinesia orientale tra cui l'Alphitonia, Elaeocarpus (entrambe usate per costruire canoe), il pallisandro oceanico (Thespesia populnea) , ed altre oggi non più presenti sull'isola. Dal 1010 in poi l'isola subì una progressiva deforestazione, durante la quale, secondo alcune stime, oltre 10 milioni di palme giganti vennero abbattute, favorendo di conseguenza sia l'erosione  dello strato fertile di terreno che ricopre l'isola, sia la desertificazione di ampie zone, esponendo il terreno al vento e alle intemperie. Tale evento potrebbe essere stato anche causa di una drastica riduzione della popolazione sull'isola.

A testimonianza delle ampie foreste che una volta ricoprivano l'isola sarebbe rimasto solo lo Scirpus californicus , una specie di canna che cresce esclusivamente all'interno del cratere di Rano Kao usata anticamente dalla popolazione indigena per ricoprire le capanne. Per quanto riguarda invece la specie d'albero, il
Sophora toromiro, che una volta ricopriva l'intera isola, questa può essere ritenuta estinta, dal momento che esistono solo pochi esemplari al mondo coltivati all'interno di giardini botanici.
Sophora toromiro

Il toromiro è una pianta della famiglia delle Fabacee-Faboidee originaria dell'Isola di Pasqua, in Cile. L'ultimo albero sopravvissuto in natura è stato registrato da Skottsberg nel 1917 all'interno del cratere Ranu Kau.

Purtroppo ora estinte allo stato selvatico, Kew Gardens ha un programma di ritorno al suo habitat naturale. L'ultima nota toromiro selvaggia dell'isola di Pasqua è stata abbattuta per legna da ardere nel 1960. Molti alberi erano stati abbattuti per la costruzione di materiali, canoe e sculture. Prima di morire, l'esploratore norvegese, Thor Heyerdahl, è riuscito a raccogliere i semi di questo albero. I pochi alberi Toromiro che crescono nei giardini botanici europei sono stati coltivati dal seme di Thor Heyerdahls .il lavoro investigativo degli scienziati di Kew, sulla base di impronte genetiche prelevate da questi alberi e da pochi altri in Cile, Stati Uniti e Australia, ha confermato che gli alberi conosciuti come toromiros sono davvero Sophora toromiro





giovedì 2 aprile 2015

a quattrocchi con la volpe :)


eheheh oggi lo vista:)
ero fermo all'uscita di un tunnel,quando un movimento lesto tra gli arbusti ancora spogli della scarpata, l'hanno sorpresa alla mia vista
sono rimasto fermo a guardala,lei silenziosa sentendosi osservata si è fermata voltandosi verso di me mi ha visto,i nostri occhi si sono incontrati paralleli essendo lei più in alto a una distanza di 5/6 metri.
il suo sguardo da prima stupito si è  incuriosito,per trenta lunghissimi secondi ci siamo guardati negli occhi,poi gli ho sussurrato,ehi piccolina che bella che sei,è rimasta ancora un istante a fissarmi,poi con passo felpato lenta ha proseguito per la sua strada.
mi da un senso di pace incontrare un animale selvatico nel suo ambiente e osservare la calma dell'incontro,per poi vederlo proseguire senza paura :)

mercoledì 1 aprile 2015